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Il fenomeno degli accessi non urgenti in Pronto Soccorso: uno sguardo alla letteratura.

FIMMG Sicilia

Il fenomeno degli accessi non urgenti in Pronto Soccorso:

uno sguardo alla letteratura.

 

Il Pronto Soccorso ospedaliero è la struttura che garantisce esclusivamente il trattamento delle emergenze-urgenze, ovvero di quelle condizioni patologiche, spontanee o traumatiche, che necessitano di immediati interventi diagnostici e terapeutici [Ministero della Salute, Agenas].

Possiamo definire gli accessi non urgenti in Pronto Soccorso, anche detti accessi impropri, come quegli accessi che avrebbero dovuto aver luogo, in maniera più appropriata, in strutture di cure primarie invece che in aeree di emergenza. In genere ci si riferisce a pazienti che presentano sintomi acuti o cronici non allarmanti (nessuna criticità in atto né instabilità di funzioni vitali che possa condizionare la prognosi a breve termine), oppure a pazienti che non lamentano sintomi attivi ma che desiderano visite mediche pur non avvertendo nessuna urgenza, o, infine, a pazienti che si rivolgono in area di emergenza per l’attività prescrittiva o certificativa [Bianco 2003].

Il fenomeno degli accessi non urgenti in Pronto Soccorso riguarda non soltanto le aree di emergenza, il cui sovraffollamento è stato sovente messo in relazione al fenomeno, ma riguarda da vicino anche le cure primarie: in alcune realtà italiane, infatti, l’affollamento dei Pronto Soccorso e l’afflusso di accessi non urgenti è stato affrontato istituendo ad hoc presìdi di medicina del territorio all’interno e al di fuori delle aree di emergenza stesse (Ambulatori di Codici Bianchi, Punti di Primo Intervento). Inoltre, l’afflusso di accessi non urgenti e il sovraffollamento delle aree di emergenza vengono spesso interpretati come spia di inadeguatezza della medicina del territorio.

La letteratura sul fenomeno degli accessi non urgenti in area di emergenza è vasta ma non è semplice trarne indicazioni univoche a causa di fattori quali la non uniforme qualità degli studi, la non uniformità delle scale di triage utilizzate nelle varie esperienze, le differenze nei dati utilizzati per la valutazione dell’urgenza e nelle figure deputate alla definizione del livello di urgenza (ad esempio: questionari somministrati da medici vs record estratti dai database dei Pronto Soccorso), l’equivalenza tra il concetto di non urgenza e di non appropriatezza dell’accesso (da alcuni autori messo in discussione) [Mengoni 2007].

A realizzare un accesso improprio in Pronto Soccorso è sovente un paziente di giovane età (tra i 20 e i 45 anni), spesso di sesso femminile (ma non tutte le fonti concordano su ciò), con un livello socio-economico medio-basso (ciò è stato registrato particolarmente in studi statunitensi, ove la condizione assicurativa dei pazienti poteva costituire una barriera all’utilizzo dei servizi di cure primarie). Meno frequentemente risultano impropri gli accessi di pazienti anziani, verosimilmente per la maggiore prevalenza di comorbilità nell’età anziana rispetto all’età giovanile [Bianco 2003] [Afilalo 2004] [Baldantoni 2007] [Brim 2008] [Carret 2009].

La percentuale di accessi non urgenti sul totale dei contatti di un Pronto Soccorso varia nelle diverse fonti di letteratura: in ambito italiano, a titolo di esempio, uno studio del 2003 [Bianco 2003] riporta una prevalenza del 19.6%; dati SIMEU [Sartini 2007] parlano del 24.9%, mentre un’esperienza condotta nel 2008 in regione Veneto [Rocco 2008] ha registrato una prevalenza totale del 23%; uno studio effettuato presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale Santa Chiara di Trento [Baldantoni 2007], pubblicato nel 2007, ha documentato una proporzione del 33.2% di codici bianchi sul totale degli accessi nell’anno 2005.

Tra i disturbi prevalenti riportati in letteratura vi sono quelli respiratori (soprattutto tra i pazienti più giovani) e di pertinenza gastroenterologica (gastroenteriti, gastriti) [Lee 2001], il dolore addominale e toracico [Afilalo 2004], i disturbi di occhio e orecchio [Sempere-Selva 2001]. Altri autori includono anche i disturbi dermatologici, muscolo-scheletrici, psichiatrici minori [Oterino 1999]. Nello studio veneto del 2008 [Rocco 2008] i pazienti erano inviati alla consulenza specialistica più frequentemente per patologie oftalmologiche, odontoiatriche, otorinolaringoiatriche.

È corretto correlare l’afflusso di pazienti non urgenti al sovraffollamento delle aree di emergenza, come viene spesso fatto? Il nostro articolo, lungi dall’esaurire l’argomento, vuole fornire degli spunti per una riflessione che tragga origine da dati di letteratura.

In primo luogo, alcune esperienze di letteratura hanno descritto elevati tassi di ospedalizzazione tra i pazienti considerati inizialmente come accessi impropri [Lowe 1994], ragione per la quale il concetto di “inappropriatezza” dell’accesso appare, perlomeno in alcune circostanze, discutibile. Per di più, anche considerando impropri gli accessi di pazienti che si presentano in Pronto Soccorso in maniera ripetuta (frequent attenders), sembra che lo stato di salute degli utilizzatori frequenti dell’area di emergenza sia peggiore di quello degli utilizzatori occasionali [Fuda 2006] [Hunt 2006] [LaCalle 2010].

La letteratura, poi, ha già da tempo illustrato come l’afflusso di pazienti non urgenti non congestioni in maniera significativa le aree di emergenza deputate alle cure. L’affollamento dell’aree di attesa e di triage, infatti, va distinto dall’affollamento delle aree deputate specificamente alle cure, ove accedono sempre i pazienti più critici [Kellermann 2000] [Derlet 2001] [Trzeciak 2003], a patto che il triage sia ben condotto. Ciò sarebbe coerente con alcune evidenze che il numero totale di visite nell’area di emergenza non sia un predittore di sovraffollamento della stessa, come invece può esserlo la riorganizzazione (non oculata) degli ospedali e degli altri erogatori di assistenza sanitaria [Schull 2001].

È evidente che il sovraffollamento dei Pronto Soccorso e la permanenza prolungata in attesa di posto letto hanno cause più complesse del solo afflusso di “codici bianchi”: alcuni autori le rintracciano nella inadeguata capacità, in senso lato, di gestire l’input e l’output di pazienti (indisponibilità assoluta o cattiva distribuzione dei posti letto ospedalieri, anche legata ad una riorganizzazione non sempre efficace delle strutture di assistenza), e nel cambiamento del pattern demografico e clinico della popolazione (aumento degli anziani e dei comorbili) per cui l’area di emergenza si ritrova a lavorare forzatamente e innaturalmente come una “pseudo-terapia intensiva” [Trzeciak 2003].

Nonostante le incertezze che percorrono la letteratura, l’afflusso di accessi non urgenti è stato ed è tuttora considerato come uno dei target principali dei provvedimenti volti a migliorare l’efficienza dei Pronto Soccorso. In questo contesto, si è spesso accusata la medicina generale di non filtrare adeguatamente tali casi o di non garantire una sufficiente “copertura oraria” del territorio. Eppure i dati di uno studio veneto del 2008 [Rocco 2008] documentano soltanto un 4.5% di pazienti non urgenti inviato in area di emergenza da un medico; appena il 13.2% dei soggetti dichiarava di non avere un medico di famiglia e nel 64.2% degli accessi in area di emergenza il medico di medicina generale non era neanche stato cercato, mentre l’indisponibilità oraria del medico di famiglia era stata causa di accesso in Pronto Soccorso in meno del 6% dei casi; l’insoddisfazione riguardo la diagnosi fatta dal curante, infine, era dichiarata come motivazione soltanto nel 6.8% dei casi. Valori diversi, ma testimoni di un quadro simile, quelli di un’analisi dello stesso anno condotta dall’Ordine dei Medici di Bergamo [Commissione Pronto Soccorso, Bergamo 2008]: il 78% dei pazienti giungeva in area di emergenza per decisione propria e soltanto il 22% inviato dal medico di famiglia, dal medico di guardia medica o da uno specialista ospedaliero.

Tale trend è confermato anche da dati di altre regioni d’Italia. Dati EMUR generati da ventisei Pronto Soccorso siciliani nell’anno 2012 dimostrano che la maggior parte degli accessi (indipendentemente dal codice di gravità assegnato) avveniva tra le ore 07:00 e le 21:00 circa, un range orario quasi totalmente coperto dal medico di famiglia, in studio e/o con reperibilità telefonica (presente nell’Accordo integrativo regionale dal 2004). La quota di pazienti che accedeva tra le 21:00 e la mezzanotte era minore e una quota ancora inferiore utilizzava il servizio di emergenza tra la mezzanotte e le sei del mattino. Il fine settimana, inoltre, registrava un calo delle affluenze: gli accessi mediamente raggiungevano il loro picco nella giornata di lunedì mentre diminuivano dal venerdì alla domenica. Tale comportamento non giustifica un utilizzo dei servizi di emergenza per inadeguata copertura oraria del territorio da parte del medico di famiglia.

Gli accessi non urgenti sono prodotti da un gruppo eterogeneo di pazienti e, pertanto, eterogenee sono le motivazioni di mancata considerazione dei servizi di cura primaria in favore del Pronto Soccorso. Elaborare dei provvedimenti come se il gruppo di questi pazienti fosse omogeneo, senza cioè riconoscerne la variabilità interna, è la verosimile ragione alla base dello storico fallimento di tali provvedimenti (negazione della valutazione in area di emergenza o preautorizzazione dopo valutazione clinica, ticket di compartecipazione, diversione verso servizi territoriali, interventi di tipo educazionale sui pazienti) [Afilalo 2004]. In tal senso, è stato affermato che interventi effettuati su un “unico fronte” hanno poche possibilità di successo [Roberts 1997]. Da queste considerazioni consegue l’interrogativo: ampliare l’offerta territoriale per rispondere alle sole esigenze dei “codici bianchi” (Ambulatori Codici Bianchi e Punti di Primo Intervento che di fatto non sono in grado di gestire una complessità maggiore di quella per la quale esiste già la Continuità Assistenziale) rappresenta una strategia allocativa efficace?

Nel contesto di una “patologia multifattoriale” com’è il sovraffollamento delle aree di emergenza, probabilmente la domanda precedente avrebbe risposta negativa, anche alla luce del fatto che non è escludibile che modelli proposti ai soli codici bianchi possano indurre un aumento paradosso della domanda [Rocco 2008].

Allargando la lente, guardando al fatto che in talune realtà i pazienti a bassa complessità (codici bianchi più codici verdi) sembrerebbero costituire la maggioranza degli accessi e che tra questi potrebbero trovarsi frequent attenders e pazienti comorbili, l’allocazione di una massa economica prevista nel nuovo ACN in favore di un potenziamento delle strutture territoriali potrebbe rappresentare una strategia più efficace di quelle finora tentate. Spunti per una gestione “multifattoriale” dei problemi sovraffollamento e accessi impropri in area di emergenza potrebbero essere: potenziare (e non moltiplicare!) le reti territoriali dei servizi rendendole in grado di fornire anche prestazioni di primo livello; produrre servizi territoriali in grado di assicurare anche una media intensità di cure in modo da limitare l’afflusso in Pronto Soccorso di riesacerbazioni minori di pazienti cronici; revisionare la prescrivibilità di specialità farmaceutiche che attualmente generano un volume di visite specialistiche per la sola compilazione dei piani terapeutici (allungando le liste d’attesa).

A parere di chi scrive, imprescindibile appare la pianificazione di studi in grado di definire con maggiore precisione il fenomeno italiano degli accessi a bassa complessità, in termini di tipizzazione dei soggetti coinvolti e di ricadute sul Servizio Sanitario Nazionale e sugli erogatori di cure. Solo l’approfondimento sistematico del problema si può attendere che suggerisca interventi concreti ed efficaci.

 

Estratto dalla Tesi di fine CFSMG

del Dr Andrea Scalisi (Polo di Palermo)

Relatore Dr Luigi Galvano

 

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